Da diversi anni il lavoro di Francoise Venneraud si concentra sulla percezione soggettiva del tempo e dello spazio attraverso la messa in discussione delle nozioni di esilio, territorio, memoria e tempo vissuto.
L’artista francese è interessata ai confini complementari tra il visibile e l’invisibile, il tangibile e l’aleatorio, il viaggio di andata e il ritorno, e in definitiva a interrogarsi sulle cause e gli effetti che convertono o trasfigurano il paesaggio in un territorio.
Centrale nella sua ricerca è la montagna, che l’artista esplora da un punto di vista estetico e concettuale, per lo più attraverso il disegno, la scultura e l’installazione.

 

 


Francoise Venneraud, The World is a Sculpture, 2019. Disegno su carta. Courtesy l’artista

 

 


UNA CONVERSAZIONE TRA L’ARTISTA, ANDREA LERDA E VERONICA LISINO:

 

AL
Il tema del paesaggio e il soggetto montagno sono centrali nella tua pratica artistica. Ci racconti da dove nasce l’attenzione nei confronti di un soggetto così specifico come la montagna e com’è maturala nel tempo la tua ricerca in questa direzione?

 

FV
Il paesaggio è sempre stato al centro della mia pratica, anzi, direi che ne è il filo conduttore. Sono sempre stata molta attratta dalle montagne. Da bambina passavo il tempo a fare escursioni, ero una di quelle giovani che la sera leggevano Frison Roche e che all’alba partivano alla conquista delle cime. Poi ho avuto un grave problema di salute e camminare è diventato complicato, addirittura inaccessibile per lunghi mesi. Questo evento ha cambiato profondamente la mia percezione del camminare e dei paesaggi montani. Non correvo più sul terreno, ma ne vivevo la geografia, la topologia con tutto il mio essere, attraverso il dolore, la paura, il coraggio; il camminare era diventato fine a se stesso, non cercavo più di abbracciare i paesaggi, ma solo di attraversarli. Questo mi ha portato a esplorare vari aspetti del paesaggio nel mio lavoro, come il movimento, l’attraversamento, il sentiero, il percorso, così come la costruzione del paesaggio in rapporto alla nostra relazione ed esperienza. Mi piace introdurre un’importante sfumatura fenomenologico-percettiva. A volte i soggetti sono prefigurati e tangenziali al viaggio o ai movimenti migratori, Forse, per questo motivo, alcuni dei miei lavori oggi possiedono una certa tensione, persino un conflitto regolato, tra la rappresentazione bidimensionale e astratta del paesaggio e la concezione di esso come territorio, come spazio. È il caso di opere come The World is a Sculpture, in cui il disegno di una montagna, per l’azione stessa di una vite e della forza necessaria a fissarla al centro del supporto, come se fosse un movimento metaforico di placche tettoniche, fa sì che la carta, con la sua rappresentazione bidimensionale e illusoria del paesaggio montano, acquisti volume.

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VL
Cè un lavoro che al momento consideri più rappresentativo della tua ricerca e perché? Ce lo puoi raccontare?

 

FV
Ci sono opere fondamentali nella mia pratica perché sono punti di inflessione, in particolare Travesia. Si tratta di un immenso disegno a grafite su piastrelle, che rappresenta la mappa topografica dei Pirenei orientali attraverso la quale una moltitudine di spagnoli fuggì dalla Spagna dopo la guerra civile del 1939. Ho tracciato le curve di livello una ad una per evidenziare le alture attraversate dai rifugiati. Per visitare la mostra, il pubblico è obbligato a calpestare questo “grande tappeto”, le cui piastrelle si rompono al passaggio del pubblico. Ma i passi non si limitano a rompere le piastrelle: i passi sono la traccia ripetuta di un passaggio che non è mai innocente, che cerca sempre di afferrare ciò che vede, che cerca sempre di farne un territorio e di conquistarlo. I passi, potremmo dire, sono scintille, scintille che costruiranno nei giorni della mostra un territorio metaforico capace di rivelare quanto questa candida idealità che chiamiamo paesaggio semplicemente non esista, che sia semplicemente un modo di guardarsi intorno.

 

 

 

Francoise Venneraud, Traversia, 2014, disegno su pavimento di ceramica. Courtesy l’artista

 

 

 

AL
Nei tuoi lavori emerge spesso l’idea di interferenza. Paesaggio, territorio, memoria e tempo si fondono all’interno di disegni, fotografie, installazioni dalle quali la presenza umana è presente, seppure in modo invisibile. Utilizzi un’estetica della sottrazione per raccontare dell’impatto antropico ma anche per fare emergere la natura stratificata di luoghi e concetti.
Apprezzo molto l’aspetto dinamico delle tue installazioni e trovo interessante il senso di partecipazione che esse generano nello spettatore. Ci racconti qualcosa di più rispetto a questo aspetto del tuo lavoro?

 

VL
Nelle mie opere, l’idea di interferenza è davvero centrale. Cerco di esplorare come il paesaggio, il territorio, la memoria e il tempo si sovrappongano e si intreccino, creando così complessi strati di significato e di esperienza. Questa esplorazione si concretizza attraverso disegni, fotografie e installazioni in cui la figura umana è spesso presente, anche se in modo invisibile. Impiego deliberatamente un’estetica della sottrazione per evidenziare l’impatto umano su questi paesaggi, illuminandone al contempo la natura stratificata. Rimuovendo alcuni elementi visivi o rendendoli parzialmente invisibili, mi propongo di far riflettere sul modo in cui la nostra presenza influenza e trasforma il nostro ambiente, sottolineando al contempo la complessità e la ricchezza dei paesaggi naturali e culturali. L’aspetto dinamico delle mie installazioni deriva da questo desiderio di creare un’esperienza immersiva e partecipativa per lo spettatore. Invitando il pubblico a esplorare fisicamente e mentalmente le mie opere, mi propongo di evocare un senso di connessione e coinvolgimento con i temi trattati. Voglio che gli spettatori si sentano non solo osservatori ma anche dei partecipanti alla costruzione del significato e dell’esperienza artistica. Incoraggiando lo spettatore a interagire con le mie installazioni, a muoversi nello spazio e a scoprire prospettive diverse, mi propongo di creare momenti di incontro e di dialogo con le opere. Questo aspetto partecipativo del mio lavoro mira a stimolare l’immaginazione, evocare emozioni e incoraggiare una riflessione profonda sui temi universali che esploro.

 

 

 

 

Francoise Venneraud, Golden Creeck, 2021, pittura a oro su inkjet print; Tierra a la vista, 2020, stampa su seta. Dettaglio e veduta dell’installazione. Courtesy l’artista

 

 

 

VL
Nelle tue opere utilizzi media differenti, a partire dal disegno che in una precedente intervista definisci “compulsivo, intimo e quotidiano, che utilizzo come banca dati, che mi permette di classificare i miei ricordi, archiviare i miei dubbi, le mie paure, di guardare serenamente l’orizzonte, alleggerito da tutte queste tensioni interne”.  Il disegno però si espande e invade lo spazio, divenendo spesso forma tridimensionale: che significato ha questa operazione per te? È la denuncia di una mancanza o, diversamente, l’evidenza di una potenzialità?

 

FV
Una volta terminata la scuola d’arte, avevo bisogno di stabilire un ritmo di lavoro, così mi sono imposta due ore di disegno al giorno per molti anni. All’inizio mi è stato difficile rispettare questo vincolo; mi mancavano le idee e non riuscivo a capire dove mi avrebbe portato disegnare centinaia di piccoli schizzi poco interessanti. Con il passare delle settimane, ho cominciato a guardarli con più attenzione, a classificarli, a scartarli… E mi sono resa conto che rivelavano tutto ciò che era importante per me. E ho capito che rivelavano tutto ciò che contava per me e dove volevo andare. Ho iniziato a esporli sulle pareti del mio studio fino a coprire lo spazio; erano ovunque, sui muri, sul pavimento, sul soffitto.
Trovavo affascinante questa profusione; cominciai a camminare freneticamente nello spazio, associando i disegni, le idee, i colori o la loro assenza. Ero riuscita a mettere in moto il mio corpo grazie a piccoli disegni che riflettevano i miei pensieri più intimi ma anche più banali. Questo potenziale del disegno, che diventa installazione, e per di più partecipativo perché girando per la stanza cambiavo la posizione delle immagini per creare nuove connessioni tra i disegni, mi è sembrato ovvio. Da quel momento in poi, nel mio lavoro sono emerse molte installazioni di disegni tridimensionali; avevo trovato un significato nella mia linea disegnata: poteva mettere in movimento i corpi in uno spazio, creare un rifugio, trasformarsi in scultura, rivelare il paesaggio come territorio.

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Francoise Venneraud, Archipielagos, 2014, vetro tagliato; Ralentir la chute, 2023, stampa su carta ritagliata. Courtesy l’artista