GIDEONNSSON/LONDRÉ

I am Vertical

 

Il duo artistico Gideonsson/Londré, che vive e lavora nel villaggio di Kallrör, in Svezia, esamina la relazione con il tempo e il corpo attraverso performance, installazioni e interventi site specific.
Parte della loro pratica consiste nel posizionare e usare il corpo in modi alternativi durante attività quotidiane che sono fortemente condizionate, con l’obiettivo di interrompere i soliti schemi di movimento. Per loro, questo tipo di approccio libera la conoscenza e le abitudini immagazzinate nei nostri corpi nel corso del tempo.

Nel contesto di Mountain Scenarios, il dialogo con gli artisti prende forma dal lavoro “I am Vertical”, un progetto che affronta l’isolamento e lo stato mentale sperimentato quando gli esseri umani vanno oltre gli 8.000 metri sul livello del mare, in prossimità di una vetta. Il luogo che gli scalatori definiscono come il limite verticale, la “zona di morte”. L’interesse di Gideonsson/Londré è l’esplorazione di questo limite verticale. Ricreando tale dimensione in modo performativo, gli artisti si interrogano sull’effetto che tale condizione di stress attiva sullo stato mentale dello scalatore, sulle sue capacità introspettive e sui cambiamenti fisici.

 

 

I am Vertical, Still da video HD “At the foot of a foot”

 

 

UNA CONVERSAZIONE TRA GLI ARTISTI E I CURATORI:

 

AL
La dinamica di conquista del mondo ha avuto nel corso dei secoli un carattere prettamente orizzontale. Se osserviamo invece il caso della montagna, siamo di fronte a un “colonialismo verticale”, per usare le parole di Alexandra Laudo, tenuto a bada dal fatto che le caratteristiche biologiche umane mal si prestano alle condizioni imposte dell’alta quota.
Nel progetto I am Vertical esplorate il concetto di verticalità e al tempo stesso forzate la possibilità di abitare una condizione al limite della sopportazione fisica.
Nell’atto performativo di I am vertical, il cui titolo fa riferimento a un poema di Sylvia Plath, viene messa in scena la rappresentazione di un corpo umano portato a una condizione di forte stress. Quello della “dead zone” è un riferimento che oggi appare come un monito. Ci raccontate che cosa in particolare intendete mettere a fuoco con questo tipo di gesto?

GL
Volevamo concentrarci su ciò che è al di fuori della zona di comfort umano e mettere in relazione il piano orizzontale, quale posizione sicura e familiare, e quella verticale come modo di trascendere sia il proprio corpo, sia il paesaggio che si abita. Lo “sforzo verticale” è molto presente e abbiamo voluto tracciare la sua storia, la nostalgia per le cime delle montagne e questo desiderio, abbastanza recente, che è iniziato nel 20° secolo con i tentativi di scalare il Monte Everest. E anche come ci si può rapportare al corpo in modo verticale. Investigare su come noi, in quanto duo di artisti, attraverso la nostra pratica, possiamo esplorare le nostre capacità mettendoci in uno stato verticale. Siamo interessati a esplorare questi stati alternativi, a cui ci riferiamo come a una terza posizione. Esplorare ciò che accade in una situazione di alta quota e ricreare certi effetti fisici e psicologici, ma attraverso un metodo artistico, per stabilire uno stato alternativo attraverso il quale poterci esibire. Ci siamo esercitati a stare appesi a testa in giù per lunghi periodi di tempo, scrivendo e leggendo testi, analizzando come questa verticalità forzata, a testa in giù, si traduceva nel linguaggio. Ecco perché abbiamo chiamato la mostra “I am vertical”, da una poesia di Sylvia Plath. È interessante come lei faccia riferimento al fatto di come le nostre condizioni biologiche non siano adatte a questi luoghi d’alta quota. Forse è questa la ragione del desiderio verso questi luoghi. La forza motrice, come i limiti, si aggiungono alla pulsione, ed è difficile non pensare alla pulsione di morte e al desiderio che portiamo di estinguerci come specie. Questi luoghi d’alta quota offrono questa possibilità di distruzione.

 

 

 

I am vertical, Installation view, Fundació Joan Miró, Barcelona

 

 

 

VL
Il vostro lavoro esplora le diverse soggettività dell’essere umano relative alle diverse esperienze del tempo esperibili. In “I am vertical” a quale tempo vi riferite e a quale esperienza di soggettività?
C’è anche per voi, come nel poema della Plath che citate nel titolo del vostro lavoro, una contrapposizione verticalità/orizzontalità con una diversa accezione di valore, dove per la Plath l’essere verticale è metafora di una condizione di disagio, di distanza geometrica dalla vita (I am vertical but But I would rather be horizontal)? Nell’essere orizzontale, nello sdraiarsi si nasconde una sorta di umiltà o di predisposizione per l’esistenza, perché si vive nella stessa dimensione della natura, delle stelle e dei fiori.

 

GL
Abbiamo anche pensato all’esperienza del tempo come a ciò che tiene insieme il soggetto. E pensiamo a questi luoghi d’alta quota come legati a un diverso fuso orario, un tempo verticale. Lì, a causa dei bassi livelli di ossigeno, si verifica una lentezza biologica nei pensieri, un ritmo di respirazione molto più veloce, ma allo stesso tempo un deterioramento incredibilmente veloce del corpo. Ecco perché il territorio sopra gli 8000 metri di altitudine è chiamato “la zona della morte”. Non è un luogo di esistenza stabile, ma di rapida trasformazione. In questi luoghi si scontrano tanti diversi ritmi temporali.
Come dici tu, per la Plath c’è qualcosa della verticalità che lei collega all’essere umano, che l’autrice disprezza. Come il solo fatto di essere un umano con una posizione verticale rappresenti in sé un attacco al mondo, una separazione da ciò che ci circonda e una dichiarazione di superiorità. Per contro, lei auspica l’orizzontale come esperienza di ri-connessione. Come sia necessario morire per diventare vivi.
Abbiamo dunque collegato tutto questo allo sforzo verticale dello scalatore, quasi come un personaggio mitico. Ma lo scalatore desidera la verticalità o l’orizzontalità? Molti cadaveri giacciono orizzontali su diverse montagne del mondo.
Sempre in merito alla Plath, ci interessava il modo in cui lei collega il verticale e l’orizzontale in relazione alla scrittura. Come la scrittura e la lettura siano per molti versi pratiche orizzontali e come si possa costruire un linguaggio verticale. Ma anche come la lettera “I” manifesti questa posizione eretta.

 

 

VL
La “death zone” a cui vi riferite con il lavoro “I am vertical” fa naturalmente riferimento al concetto di limite e di estremo. A questo proposito mi vengono in mente le parole di un grande alpinista come Walter Bonatti: “Noi che abbiamo provato la solitudine e il contatto con la morte sapevamo di avere tra le mani le redini della nostra sopravvivenza e abbiamo risposto alle leggi naturali, ci siamo nutriti per vivere, abbiamo ritrovato la nostra animalità. Quando sono ritornato, dopo mesi di vita, in quelle dimensioni, mi sono ritrovato in una realtà nella quale mi sembravano tutti matti. Inseguivano cose che per me non avevano alcun valore”.
Per il vostro lavoro come vi siete documentati e quali riferimenti avete considerato?

 

GL
Questa citazione dice davvero molto sull’esperienza di molti esploratori e scalatori che hanno problemi a riadattarsi alla società. Ma descrive anche una certa visione secondo cui è possibile uscire dalla società, spingendosi ad esempio verso la cima di una montagna. Ci interroghiamo sul fatto che tutto ciò possa essere davvero possibile e cerchiamo di pensarlo in modo diverso, perchè anche se ci sono esperienze estatiche, l’esperienza è sempre racchiusa nel corpo e nell’esistenza. E forse questa è la parte più interessante, il fatto che stiamo portando queste possibilità dentro di noi come crepacci che ci attraggono.
Tra i testi di riferimento per il nostro lavoro citiamo “The History of the mountain” di Elisee Reclus (1881) un libro importante, con la sua biografia e la connessione tra montagna e politica. Poi una serie di testi sull’arrampicata e sul corpo di Michel Serres (Variations sur le corps), nel quale si racconta di come i movimenti fisici istruiscono il nostro pensiero in generale. Infine la poesia di Sylvia Plath.

 

 

 

Images from working process at Gestus, Copenhagen
High altitude chamber, Östersund Sweden

 

 

AL
L’opera è un invito a osservare il mondo con una prospettiva e una consapevolezza diversa. E credo che sia anche un volersi soffermare sul concetto stesso di esplorazione. Una parola che oggi ricorre sempre più di frequente nel bisogno storico di trovare forme alternative per abitare la montagna e il mondo intero. Tema, quest’ultimo, che caratterizza un altro vostro recente lavoro, dal titolo “The Natural Contract”.


GL
Sì, pensiamo che tu abbia ragione nel dire che stiamo pensando molto ai diversi aspetti dell’abitare e a come possiamo stare nel paesaggio. Come il corpo umano può trovare uno spazio basato su una relazione. Hai citato il lavoro “The Natural cCntract” che è un progetto che stiamo sviluppando con Christina Langert e Ola Fransson come Konstfrämjandet Jämtland, che ha molto a che fare con il modo in cui ci relazioniamo con l’ambiente circostante e cosa significa creare un lavoro site-specific. E cosa comporta avere una pratica site-specific. Volevamo dare forma a uno spazio nel quale le persone si confrontassero con queste domande in modo abbastanza diretto, assemblando una struttura per vivere e lavorare in un luogo. Così abbiamo creato questa struttura portatile all’intero della quale, un artista e uno scienziato naturalista, vengono invitati a convivere per una settimana, a vivere e lavorare insieme in relazione ai loro interessi specifici. A partire dai soggiorni che già hanno preso forma, è nato un archivio portatile, che movimentiamo in luoghi differenti, caratterizzati da storie particolari o da situazioni di conflitto nell’utilizzo del territorio. Riuniamo le persone del posto e le invitiamo a discutere delle questioni problematiche che le vedono coinvolte. Allo stesso tempo proponiamo loro di animare e di riorganizzare l’archivio.

 

 

The natural contract, costruzione di un riparo dal vento insieme all’artista e al biologo invitati
The natural contract, l’archivio

 

https://gideonssonlondre.com/