DANIELE GIRARDI

The Great Valley, 2012-2018 

Il lavoro di Daniele Girardi si concentra essenzialmente sul rapporto tra esperienza e visione: da qui sono nati vari nuclei di lavori, tra cui il progetto The Great Valley (2012-2018) sulla Val Grande, l’area wilderness più grande d’Italia. La sua ricerca si focalizza sull’estensione del vissuto attraverso invasioni spaziali e l’archiviazione degli Sketch Life Books, trasformando l’arte in qualcosa che si vive e non che si crea, che si esplica e si fruisce con l’esperienza, fino a diventare totale identificazione tra arte e vita.

 

Daniele Girardi, The Great Valley, sketch map – 2015

 

UNA CONVERSAZIONE TRA VERONICA LISINO E L’ARTISTA

 

VL
Tutta la tua ricerca si fonda su un viaggio interminabile, per lo più solitario, nella natura. Un andare senza meta che si nutre di esperienza e non lascia testimonianza fisica e tangibile del suo agire. I rimandi sono quelli all’avanguardia artistica degli anni Settanta, dall’etica del “Non lasciare tracce, lascia ciò che trovi”, al valore dell’esperienza “Un oggetto (opera d’arte) non può competere con un’esperienza”. Se i riferimenti sono evidenti ‒ Richard Long ed Hamish Fulton in particolare ‒ quali pensi siano invece le differenze con questi autori e le loro pratiche artistiche?

 

DG
Per comprendere il significato reale degli oggetti artistici dobbiamo guardare il punto in cui affondano le loro radici nell’esperienza e considerarli allo stato grezzo”. Parafrasando J. Delwey, a differenza di altre pratiche, non parto mai con l’idea e il concetto di realizzazione, in caso, essa si concretizza solo nella necessità del momento o a partire da quello che ho a disposizione. Stare ed esplorare un luogo è di per sé il lavoro stesso, perciò anche la semplice azione del camminare (o il navigare, molti progetti si sviluppano anche per via acqua) per inoltrarmi nei territori diventa mezzo e non fine della mia pratica artistica. La ricerca dell’incognita nei territori esplorati segue un moto circolare che come un mandala si sviluppa nel momento presente in cui vivo l’esperienza per poi dissolversi verso l’esterno lasciando o meno una traccia, memoria rarefatta del vissuto.
La mostra a cui sto lavorando “A Line made by walking, pratiche immersive e residui esperienziali in Long, Fulton, Griffin, Girardi” in collaborazione con la Panza Collection sarà un occasione per comprendere il fil rouge, in questo caso tratteggiato, di questo confronto.

 

VL
Nel tuo progetto sulla Val Grande (2012-2018) ne hai esplorato l’habitat più interno fino a costeggiare la riserva integrale (a cui è vietato l’accesso e ogni attività antropica). Il risultato di questa lunga residenza, fatta di soggiorni, pernottamenti e spostamenti a stretto contatto con una delle aree naturalistiche più selvagge d’Europa, più che un insieme di opere mi sembra voglia essere la condivisione di un vissuto. Ma come risolvi questa sorta di aporia, ossia la condivisione di un’esperienza solitaria con uno spettatore che non l’ha potuta esperire? In che modo la tua esperienza personale può diventare universale?

 

DG
Di un viaggio o di un esperienza non dovrebbe restare che 3 o 4 segni, non di più, tanti quanti in effetti, sono i punti cardinali necessari all’orientamento.
Nell’ epoca della connettività  virtuale ho scelto di  sperimentare i viaggi in solitaria e in caso poi di riportarne una parte; non penso che sia tutto trasmissibile o condivisibile, anche se il sistema attuale ci suggerisce il contrario.
Ogni azione anche se non condivisa direttamente incide su un tessuto collettivo invisibile; una trasmissione sottile attraverso simboli, scenari e feticci evoca archetipi meno immediati ma più potenti in termini comunicativi.
La traccia di un fuoco, una mappa on un taccuino abbandonato nella foresta sono echi di un Il sublime ormai lontano e assopito ma sedimentato dentro ognuno di noi e la Wilderness della Val Grande è stata un laboratorio antropologico a cielo aperto per recuperarne le dimensioni.
Boschi, vallate e canyon rocciosi sono santuari naturali, ultimi baluardi in cui il potenziale selvaggio è pienamente espresso e indispensabile per un’autentica connessione.

 

In ordine: Daniele Girardi, The Great Valley, archivio 2014 e archivio 2015

 

VL
L’esperienza della montagna come occasione di incontro con se stesso e con l’altro, con i concetti di limite e di diversità (oggi così importanti), rappresenta una possibilità eccezionale di conoscenza dell’essere e dell’esistente, quale condizione indispensabile per un futuro sostenibile. Sembra essere proprio questa l’eredità culturale che il noto alpinista-esploratore Walter Bonatti ci ha lasciato e di cui il Museomontagna conserva, dal 2016, l’intero archivio. Seppur in modi diversi, entrambi siete accomunati dall’incontro con la natura come occasione di conoscenza del sé e del silenzio “come cosa viva” (Chandra Livia Candiani). La fascinazione di Bonatti per l’esplorazione nasce dai grandi romanzi d’avventura, quale è il tuo percorso di formazione?


DG
Vivere l’esperienza non basta purtroppo a garantire l’interiorizzazione di nuove avventure, per allenare la mente è necessario anche esercitarsi nella meno fisica delle attività umane: la lettura. Immergersi tra le righe dei racconti consente al pensiero di convertire in immagini i contenuti psichici che costituiscono il bagaglio culturale di ognuno.
Al termine delle mie immersioni nella natura ho sempre dei tempi molto dilatati di sedimentazione del vissuto, la mia è una scelta politica di decrescita e attraverso una grammatica della sobrietà tendo a limitare il numero di azioni per aumentare la profondità di ogni esperienza.
Alterno periodi di apparente stasi per preparare le miei residenze, nei momenti di silenzio nel rifugio alimento suggestioni filosofiche e letterarie. Pagine scritte da esploratori, viaggiatori e scrittori sono combustibile per le miei partenze. Lo stesso Bonatti è stato per me fonte di ispirazione, mi ha accompagnato in luoghi lontani e fatto comprendere la necessità dell’ imprevedibile; l’ arte  come suggerisce D. Laferriere  a volte appare quando si è disposti a mettere a repentaglio la propria cultura.

 

In ordine: Daniele Girardi, The Great Valley, foto archivio 2013; sketch map, 2015, courtesy Collezione Caccia Dominioni

 

 

Daniele Girardi  (Verona 1977), si trasferisce a Milano nel 2000 e nel 2006 inizia una serie di soggiorni americani grazie all’assegnazione di una borsa di studio all’ISCP di New York City. Negli ultimi anni concentra i suoi interessi sul rapporto tra esperienza e visione: da qui sono nati vari nuclei di lavori, tra cui il progetto “I Road” realizzato nel deserto della Death Valley e “The Great valley” ambientato in Val Grande.

Tra il 2014 e il 2016 realizza il progetto “North Way”, un ciclo di residenze outdoor nei territori del nord Europa tra Norvegia, Svezia e Finlandia.
Partecipa a diverse esposizioni sia in Italia sia all’estero e le sue opere si trovano in collezioni private e pubbliche. Attualmente è impegnato nel progetto biennale “A line made by walking” in collaborazione con la Collezione Panza che nel 2021 ospiterà in diverse sedi castellari nella Val di Non la mostra con opere di R.Long, H. Fulton, R.Griffin, D. Girardi.
Vive lavora ai margini del bosco a Verona.

www.danielegirardi.com